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AGOSTO 2018 PAG 10 - Corea del Sud, Zes strumento per una “buona concorrenza”

Raggruppare e coordinare cifre, tendenze, soprattutto idee, per restituire un’interpretazione coerente dei fenomeni osservati. Lungo questa direttrice SRM – Studi e Ricerche per il Mezzogiorno ha intrapreso da qualche anno la strada delle collaborazioni internazionali inserendosi in una ricca rete di scambi con i principali centri studi sull’economia marittima. “Un lavoro di confronto costante, alla ricerca di know how specifici – conferma Alessandro Panaro, responsabile della sezione Maritime and Mediterranean Economy di SRM – a cui da poco abbiamo aggiunto un importante tassello con l’accordo siglato con il Korea Maritime Institute. Un’intesa ad hoc per la realizzazione di studi, ricerche e scambio di personale per fare esperienza diretta dei rispettivi settori marittimi”.

Qual è il valore aggiunto che può fornire KMI? 
Nel nostro ultimo rapporto sull’economia marittima i ricercatori coreani hanno curato una dettagliata analisi sugli investimenti bancari nel settore dello shipping. Ne è emerso un elemento da non sottovalutare: l’Europa si conferma punto di riferimento ma l’ago della bilancia si sta spostando inesorabilmente verso il Far East, tanto da far ipotizzare una futura egemonia in quest’ambito. Il modello coreano, incentrato sull’obiettivo di intercettare un flusso container che, secondo le previsioni, dovrebbe raggiungere nell’area i 100 milioni di Teu entro il 2040, risulta interessante sotto due aspetti: il coinvolgimento nella Belt and Road Initiative e lo sviluppo delle free zone.

Come sono caratterizzate le ZES nella Corea del Sud?
Si tratta di un sistema diffuso che è entrato a regime con ottimi risultati da un certo numeri di anni. Una delle peculiarità delle free zone coreane è l’autonomia strategica circa la natura delle attività da supportare. Un elemento che sfata il pregiudizio sul numero di zone che un determinato territorio può ospitare. Se ben supportato diventa uno strumento che produce “buona concorrenza” tra gli operatori determinando le condizioni per far emergere le eccellenze economiche. 

Un suggerimento per quello che dovrebbe essere fatto in Italia?
La priorità sarà riuscire a comunicare in modo preciso alle imprese interessate il pacchetto localizzativo offerto dalle Zes italiane. Ma non bisognerà limitarsi solo ai meccanismi di semplificazione amministrativa e di agevolazione fiscale. Al successo locale di una free zone contribuiscono anche altri fattori caratterizzanti: in Marocco, ad esempio, è previsto un finanziamento per una parte dell’acquisto dei terreni mentre in Egitto è richiesta una quota di manodopera locale. Considerando l’assetto e le competenze delle nuove AdSP la sfida principale riguarderà il coinvolgimento di tutto il territorio di competenza. Essenziale, dunque, la capacità di interloquire in modo efficiente con le realtà multinazionali.

Di ZES si è parlato anche al seminario della “Global Shipping Think Thank Alliance”?
È emersa l’importanza di un terzo fattore di cui poco di parla in Italia: quello doganale. Troppo concentrati sulle questioni insediative e amministrative non dobbiamo trascurare l’efficienza delle procedure import-export. Il modello dei porti degli Emirati Arabi sotto questo aspetto è illuminate. Lì i prodotti dei container sono “lavorati” sul posto e riesportati. Ma il seminario è stato importante anche per altri motivi.

Quali?
Si è trattato del primo workshop realizzato dall’alleanza dei centri studi siglata poco meno di due anni fa. Una trentina di esperti si sono confrontati su argomenti come i flussi merci nel Mediterraneo, il trasporto intermodale e il mercato container. Su questo punto vorrei rispondere a una critica che viene spesso rivolta alle nostre analisi. È chiaro che i traffici portuali sono caratterizzati da una maggiore varietà di modalità trasporto ma lo studio del settore container permette, forse meglio di altri, di misurare i livelli di internazionalizzazione di interi paesi o aree geografiche.     
Quali tendenze sono emerse maggiormente?    Colpisce, mettendo insieme i dati, la dimensione titanica di tutto ciò che è legato alla BRI. È chiaro che esiste anche un disegno di egemonia geopolitica da parte cinese ma, fatti i conti, sono portato alla conclusione che non ha senso frenare. Basti guardare a quanto accaduto con Israele, dapprima contrario e oggi invece sempre più coinvolto nell’iniziativa. Sotto questa aspetto credo esistano enormi potenzialità da sfruttare, anche per i porti italiani, a cominciare dai traffici di feederaggio.

Secondo quale modello?   
Esiste uno spazio di manovra, nonostante il vantaggio competitivo acquisito da scali come il Pireo, Valencia o Port Said. La recente visita di SRM a Singapore, dove si sta progettando uno scalo da 65 milioni di Teu, ha fatto emergere un importante fattore su cui si potrebbe lavorare. La specializzazione nel settore bunkering, con lo sviluppo delle nuove fonti di carburante, potrebbe rappresentare una ulteriore attrazione per i traffici offrendo alla nave non solo la possibilità di caricare o scaricare merce ma anche di rifornirsi ed effettuare le necessarie operazioni di rimessaggio. Scali come Napoli, Trieste e Cagliari avrebbero le carte in regola per iscriversi a questo gioco.
Sulla BRI è stato creato recentemente un osservatorio con Confetra.

La Nuova Via della Seta caratterizzerà i prossimi 25 anni ed è chiaro che per un fenomeno così duraturo non ci si può limitare ad analisi spot. Nel corso di un primo workshop con i rappresentanti della confederazione abbiamo tirato le prime somme. Come SRM abbiamo analizzato gli indicatori economici su cui la BRI andrà ad influire, i rapporti tra Italia e i paesi che partecipano all’iniziativa e gli aspetti infrastrutturali. L’obiettivo, in collaborazione con i centri studi delle associazioni che fanno parte di Confetra è produrre un “position paper” di orientamento per il governo.

Nell’ultimo rapporto di SRM si analizza il “gigantismo navale nel settore ro-ro”. Quali conseguenze si produrranno?
La dimensione media di questo tipo di naviglio è cresciuta di circa il 20% sia per effetto delle nuove costruzioni sia per il refitting di quelle esistenti. È chiaro che questo fenomeno di “jumboization”,  soprattutto negli scali dove gli operatori non gestiscono direttamente un loro terminal, avrà conseguenze sulla selezione delle destinazioni, poiché richiederà sempre maggiori spazi. Il che apre ulteriormente il discorso del rapporto tra i nostri scali e le aree retroportuali. Su questo punto bisognerà analizzare se questo tipo di business sarà redditizio per gli interporti.   

I prossimi appuntamenti di SRM?
Stiamo realizzando un rapporto marittimo su Singapore, in occasione di una missione che partirà in autunno, mentre a settembre presenteremo l’aggiornamento dell’analisi su Suez. Entro fine anno sarà invece rilasciato il nostro primo lavoro dedicato ai corridoi energetici. Un argomento che abbiamo anticipato in parte con l’ultimo rapporto sull’economia marittima su sollecitazione di diverse AdSP e che si baserà principalmente su due tipi di analisi: quella dedicata al bunkering – centri di stoccaggio o lavorazione – e ai flussi commerciali attraverso i traffici dei maggiori stretti – Malacca, Hormutz, Suez e Panama. 
Giovanni Grande
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