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APRILE 2021 PAG. 20 - D’Agostino: l’errore dell’Ue è guardare ad Est e non a Sud

 

 

La crisi sembra essere diventata l’abito della contemporaneità. Negli ultimi vent’anni gli shock di sistema, a partire dagli attacchi terroristici al World Trade Center fino all’attuale emergenza pandemica, si stanno susseguendo senza soluzione di continuità. Le conseguenze sotto l’aspetto politico, economico e sociale mettono in crisi gli schemi precostituiti. «Serve reattività. Capacità di incidere sulla realtà in tempi sempre più brevi». Zeno D’Agostino, presidente dell’AdSP del Mar Adriatico Orientale, recentemente anche alla guida di Ram – Logistica, Infrastrutture e Trasporti Spa, è da tempo sintonizzato su questi temi. Tra citazioni di Parag Khanna (“Technocracy in America”) e Alessandro Aresu (“Le potenze del capitalismo politico”) il suo discorso si allontana velocemente dai soliti binari. Alla contabilità spicciola delle merci movimentate, alle variazioni percentuali anno su anno, all’armamentario dei tanti (troppi) webinar tenuti negli ultimi tempi, impone l’invito a «confrontarsi con la complessità». A ragionare in termini di cambiamenti strutturali pur mantenendo i piedi ben piantati a terra. Non a caso le sue riflessioni sulla “nuova normalità” partono dalle attività quotidiane sulle banchine; dal record di avviamenti da poco registrato dall’Agenzia per il Lavoro Portuale del porto di Trieste. «Una buona notizia in generale e un messaggio preciso su un tema di grande delicatezza, specialmente in questo particolare frangente: c’è un modello di organizzazione del lavoro che funziona e garantisce competitività. Questo dimostra che l’attrattiva di un porto non può essere calcolata solo in base ai costi. La Compagnia che opera a Trieste, giudicata da alcuni frutto di uno schema normativo fin troppo rigido, contribuisce all’efficienza complessiva dello scalo grazie a qualità della formazione e dialogo con i terminalisti. Elementi fondamentali di una comunità portuale in grado di prendersi le sue responsabilità nel rispetto pieno delle regole».

 
La crescita del lavoro come risultato di un processo ben ponderato. Pietra di paragone e punto di partenza per affrontare al meglio l’accelerazione di una serie di fenomeni su cui la pandemia sta agendo da catalizzatore. Il reshoring, ad esempio, e le dinamiche contraddittorie che stanno portando ad una “regionalizzazione della produzione”. Al principio era stata la guerra dei dazi: per sfuggire alla contrapposizione dei blocchi si è incominciato a rimodulare la presenza manifatturiera a livello globale evitando l’eccesiva concentrazione geografica. 

  
«Un anno fa, con lo scoppio della pandemia, si era prospettato il rischio di una massiccia migrazione della attività dalla Cina. Oggi, considerando che si tratta dell’unico paese in cui l’attività economica è ripresa a pieno ritmo, si potrebbe addirittura ipotizzare un esito inverso. Aggiungiamo al quadro anche l’incidente di Suez, con i suoi effetti pesanti sui tempi di produzione di molti segmenti industriali. Ragionevolmente c’è da aspettarsi un “rilassamento” delle catene logistiche. Il che, oltre alla delocalizzazione degli impianti produttivi, potrebbe portare anche ad una “regionalizzazione degli stoccaggi”. Le aziende ormai hanno tutto l’interesse a concentrare merci in diverse aree del globo – anziché puntare tutto, come prima, su tempistiche esasperate – per assorbire eventuali shock nella continuità della catena logistica. Un tema che potrebbe risultare interessante sia per realtà come Trieste sia per il Mezzogiorno. Il nostro Porto Franco e le ZES potrebbero acquisire, in questa nuova stagione, una nuova appetibilità».     


Sul rallentamento del ritmo di circolazione della merce, nella nuova fase del mercato globale post-Covid, alcuni territori potrebbero, in effetti, giocare la carta della “specializzazione”. Adeguare la propria offerta per intercettare i flussi merceologici “pazienti”, riproponendo, con tutte le ovvie differenze del caso, lo schema dei “porti – emporio” all’origine del capitalismo moderno. 


«Il caso dell’alluminio a Trieste è esemplificativo di questa particolare dinamica. Il materiale arriva da differenti luoghi di origine, è stoccato nell’area del Porto Franco e attende in panchina prima di essere immesso sul mercato secondo le strategie scelte dai trader. In giro per il mondo ci sono già aree – penso al porto franco del Thè e del Caffè a Dubai – che fungono oltre che da deposito e area di parziale lavorazione, da punto di riferimento dei prezzi globali. In una logica di tipo borsistico e finanziario che subentra immediatamente dopo le attività logistiche. Niente di inedito in realtà. I centri portuali del passato sono stati spesso anche, e non a caso, importanti centri finanziari. Ma per approfittare dell’occasione serve un approccio amministrativo capace di interfacciarsi alle dinamiche, alle accelerazioni e ai repentini mutamenti del mercato. Gestire le ZES attraverso la nomina di comitati più o meno ampi non ha più senso. La successione degli shock di sistema dall’inizio di questo secolo ci insegna che dobbiamo essere più veloci, puntando su strutture decisionali più verticali. Il rischio vero da scongiurare è la fascinazione nei confronti delle dittature che dimostrano maggiore efficienza nell’affrontare determinati cambiamenti. Chi ha a cuore la democrazia deve porsi questo problema: la democrazia va salvata iniettandole un maggior grado di reattività».  


Dalla necessità di dotarsi di strumenti adatti a governare i processi alle recenti polemiche sull’eccessivo peso delle compagnie marittime anche nelle operazioni di terra il passo è più breve di quanto si pensi. Lasciati a se stessi gli “spiriti animali” del capitalismo vanno indirizzati: pena il monopolio e un gigantismo economico in grado di interferire con l’interesse comune. Anche in questo caso servono nuovi occhiali per guardare la realtà. 


«Da analista non posso certo negare che la ricerca della dimensione, in economia, è una carta vincente. Purché si sia coscienti che oltre una certa soglia il fenomeno, sia esso verticale o orizzontale, diventa controproducente. Anche in questo caso l’incidente di Suez fa testo. Il gigantismo navale non riguarda più solo il mare. A fronte di vantaggi sempre più marginali relativi alla crescita dimensionale delle unità si riscontrano enormi diseconomie a terra. Rispetto all’inadeguatezza infrastrutturale, l’aumento della congestione delle aree, i picchi sproporzionati di lavoro, paradossalmente, sarei tentato di dire che la presenza degli armatori nella logistica di terra può essere una soluzione: sono costretti a confrontarsi direttamente con problemi che altrimenti non li toccherebbero. Sono questioni che però vanno discusse a livello europeo: oggigiorno un singolo stato intenzionato a intervenire sarebbe facilmente bypassato. È a Bruxelles che va impostato un discorso di più ampio respiro, incentrato, oltre che su regole anti-oligopoli, anche su misure ormai ineludibili come l’efficienza energetica e il rispetto ambientale».
Eppure negli ultimi anni, complice anche l’ascesa di potenze geoeconomiche non strettamente ascrivibili alla sfera liberale, il ruolo pubblico è cresciuto enormemente a livello globale. Lo Stato minimo sembra non andare più di moda. Sostenibilità, emergenza sanitaria, crescita economica. Sono tutti ambiti in cui l’intervento regolatorio non basta e lascia il passo a quello diretto. 


«Da decenni, in particolare in Italia, viviamo l’idea dello Stato ragioniere e non visionario. All’imperativo dei tagli andrebbe contrapposto quello della creazione di valore. Oggi non basta più la “mano invisibile” dell’economia: serve quella visibile dell’intervento pubblico. È pur sempre capitalismo: ci sono periodi in cui la presenza statale è più pronunciata, altri meno. Credo che nel periodo presente le cose vadano rimesse in carreggiata, anche guardando ai modelli organizzativi di maggior successo. Nel descrivere Singapore, Parag Khanna ci ricorda che il 60% della sua attività economica è in mano pubblica. Alessandro Aresu ha dimostrato che USA e Cina si somigliano più di quanto sembri. Il motore dell’economia americana è ancora quello che veniva definito come complesso militare-industriale. Più della metà delle commesse della Silicon Valley sono statali. Solo l’Ue è rimasta con il tabù degli “aiuti di stato”. Un vero e proprio controsenso quando di fronte abbiamo Tangeri, con tutte le misure di facilitazione per attrarre gli investimenti, e ai nostri porti si chiede di pagare le tasse».        


Anche l’Europa, dunque, dovrebbe cambiare punto di vista sul mondo. Piuttosto che ragionare sui commi guardare alle aree dove si giocano le vere partite egemoniche. Ripensando la sua proiezione, a cominciare dal Mediterraneo dove la Cina, prima che ancora a livello militare e politico, sta conducendo una sua vincente strategia commerciale. 


«L’errore dell’Ue consiste nel guardare ad Est e non al Sud. Nel Mediterraneo, e il discorso riguarda prima di tutto l’Italia, ci stiamo per sbaglio. Non è un problema di soldi ma di idee. Servono cervelli, non portafogli. E la capacità, oltre all’intenzione, di studiare gli scenari futuri. C’è una funzione mediterranea, specialmente per il Mezzogiorno, che va ripensata fin dalle fondamenta. Le AdSP dovrebbero essere autonome nel dialogo con i paesi dell’area, nell’ottica seconda la quale quando il pubblico si muove lo fa con una sua forza peculiare, come portatore di un interesse collettivo. Sarà un tema da sviluppare anche in seno a RAM, perché le “autostrade del mare” devono andare oltre la visione nazionale o comunitaria. Perché i programmi europei finanziano solo la parte di competenza dei collegamenti? Se non mettiamo piede in quei territori sfruttando le tratte potenziali non daremo senso agli investimenti che facciamo in casa.

Giovanni Grande

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