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MARZO 2020 PAG. 38 - In fondo al mare per reperire i minerali sempre più rari







Con estrazione mineraria in alto mare (DSM-Deep Sea Mining) si definisce, tecnicamente, il processo di recupero di giacimenti minerari dal mare profondo (ovvero quell’area dell’oceano al di sotto dei 200 metri che ricopre circa il 65% della superficie terrestre). Sebbene non siano ancora in corso attività DSM su scala industriale, il settore sta suscitando una crescente attenzione anche in considerazione dell’orizzonte di medio termine (5-10 anni) entro cui sono previste le prime attività estrattive di questo tipo. Ultima in ordine di tempo anche il gigante assicurativo Allianz Global Corporate che ha dedicato al tema un report specifico (Esg Risk Briefing), in virtù degli interessi, non solo economici, ma anche ambientali, sociali e di governance, legate al potenziale sviluppo di questa attività.

Il IX Summit annuale delle attività estrattive in acque profonde dell’aprile 2019 di Londra (l’appuntamento successivo, previsto per il maggio di questo anno è in forte dubbio per le possibili misure di restrizione dovute alla pandemia da Coronavirus) ha evidenziato come l’industria mineraria ha già a disposizione le tecnologie per affrontare il lavoro di estrazione sui fondali marini. “Le società minerarie sono già al lavoro per superare le sfide poste dall’ambiente più remoto del mondo e molte nazioni insulari in via di sviluppo stanno guardando con interesse allo sviluppo del settore. Mentre la domanda di metalli di base e minerali aumenta sempre più rispetto a quanto è possibile reperire sul suolo terrestre nuove tecniche e tecnologie possono contribuire a far avanzare questo tipo di attività”.
Una “nuova frontiera”, come sottolinea il rapporto 2019 di Greenpeace “In Deep Water” il cui impulso giunge dalla crescente domanda globale di cobalto, nichel, argento, manganese, rame, metalli rari. “Molti di questi minerali stanno diventando sempre più difficili da reperire ed estrarre dalle riserve terrestri, e sono fondamentali per la transizione verso un’economia a bassa emissione di carbonio, data la loro prevalenza in tecnologie ‘verdi’ come la generazione di energia rinnovabile e i sistemi di stoccaggio dell’energia elettrica”.

Secondo il progetto europeo MIDAS (Managing Impacts of DeepSeA reSource exploration) le risorse ricavabili all’interno dei fanghi d’alto mare (in particolare, dai cosiddetti noduli polimetallici di manganese e solfuro e dalle croste ferromanganese ricche di cobalto) “possono ricoprire un ruolo importante e da tempo c’è interesse per l’estrazione di gas idrati come fonte di idrocarburi”. MIDAS ha anche realizzato una mappa sintetica delle principali aree di licenza di prospezione che non si trovano all’interno delle Zone Economiche Esclusive (ZEE) nazionali: un’area che copre circa quattro milioni di metri quadri nel medio Oceano Pacifico, tra le Hawaii e il Messico, due aree situate nell’Oceano Indiano, una a sud-est e una a nord-est del Madagascar, e un’area ad est del Mar dei Caraibi, nel medio Oceano Atlantico, lungo la dorsale atlantica. Tutte aree attualmente amministrate dall’ISA, l’Autorità internazionale dei fondali marini delle Nazioni Unite.

È proprio all’ISA che spetterà promulgare le “regole del gioco” prima di passare all’attività commerciale. L’ente deve completare entro il luglio 2020 un codice minerario specifico in cui confluiranno l’insieme delle norme, dei regolamenti e delle procedure relative al DMS. “Le norme di sfruttamento, comprese le questioni ambientali, non sono l’unica parte del quadro che deve ancora essere sviluppata,” avverte il documento realizzato da Greenpeace. “ISA deve anche sviluppare ulteriormente le proposte sul livello delle tariffe e delle royalties che gli appaltatori dovranno pagare. Al momento l’Autority ha già concesso 29 licenze per l’esplorazione di piani di sfruttamento. Le licenze, concesse a un gruppo limitato di Paesi che sponsorizzano società private coprono aree dell’Oceano Pacifico, Atlantico e Indiano, per un totale di 1,3 milioni di chilometri quadrati”.
A condurre le prime operazioni con successo è stato però il Giappone. La Japan Oil, Gas and Metals National Corporation ha dispiegato escavatori navali in un deposito di minerali a circa 1600 metri di profondità vicino a Okinawa. Il governo di Tokyo si aspetta di trovare altri giacimenti di minerale nella zona e sta pianificando di commercializzare l’attività mineraria nel sito.

In attesa dei risultati concreti si è avviato il dibattito sulla convenienza economica e sociale del DSM. “Uno degli argomenti contro viene da coloro che sostengono che la domanda prevedibile di questi minerali possa essere comunque soddisfatta dalle attività terrestri” sintetizza il report di AGC. Anzi, il Deep Sea Mining potrebbe addirittura “aggiungere costi economici e ambientali non necessari nella catena di approvvigionamento”. Soprattutto in determinate aree in cui “l’estrazione interferisce negativamente con le zone di pesca e altre forme di vita marina e aree agricole produttive”.
La conferma in tema di sostenibilità complessiva arriva dalla Papua Nuova Guinea, con il grande progetto Solwara1 entrato in crisi sia nel reperire le risorse finanziarie, pubbliche e private, necessarie sia per le proteste delle popolazioni locali. “Le preoccupazioni principali sono legate alla natura generalmente distruttiva dell’attività mineraria e alla potenziale perdita di habitat in gran parte incontaminati e poco comprensibili sul fondo dell’oceano”. Tanto che al Forum delle Isole del Pacifico del 2019, il Primo Ministro delle Figi, Frank Bainimarama, ha chiesto ai Paesi del Pacifico di sostenere una sospensione decennale di tutti le attività sul DSM. 

Quale che siano le analisi e le conclusioni dei differenti interessi in campo, con un acceso dibattito tutto legato alle normative internazionali sui confini fra ZEE e acque internazionali, la partita è in corso e solo i prossimi anni potranno dire se si passerà dalla “nuova frontiera” a settore industriale consolidato. Intanto, il mondo delle assicurazioni comincia a prendere le misure. “Mentre l’estrazione mineraria è un’attività antica, i metodi tecnici e ingegneristici per l’esplorazione e l’estrazione di minerali dal fondo del mare sono ancora in fase di sviluppo” spiega Allianz. “Tali attività industriali pionieristiche sono suscettibili di rischi. È però probabile che le esperienze assicurative derivanti sia dal petrolio e dal gas offshore sia dai rischi legati al settore marittimo (sia dello scafo che del carico) siano direttamente rilevanti per l’assicurazione delle attività DSM. La natura stessa dell’estrazione non è del tutto dissimile dall’estrazione di petrolio e gas, mentre le attrezzature e i beni che vengono proposti per l’impiego Nel DSM sono simili a quelli già assicurati per i clienti industriali esistenti che hanno operazioni marittime”.
                                                                                                                           Giovanni Grande
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