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SETTEMBRE 2019 PAG. 18 - La Blue economy per ripensare il ruolo dei commercialisti







Tra le analisi inedite dell’ultimo rapporto annuale Italian Maritime Economy di SRM s’inserisce la presentazione dei primi risultati del lavoro avviato dalla Fondazione Nazionale di Ricerca dei Commercialisti nell’ambito dell’Osservatorio sui bilanci delle società di capitali del cluster marittimo, iniziativa sostenuta dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti  Contabili nel perimetro del progetto “Attività d’impresa” istituito per il rafforzamento dei contenuti professionali. La ricerca illustra i principali indicatori di bilancio del settore testimoniando al tempo stesso l’attenzione crescente riservata al capitolo “blue economy” da un Ordine che cerca di ripensare il proprio ruolo. Ne parliamo con Achille Coppola, segretario del CNDCEC.

Da dove parte l’interesse per il settore dell’economia del mare?
È la conseguenza, direi naturale, del processo di riorganizzazione della professione intrapresa negli ultimi tempi dalla nostra categoria. Rispetto ai cambiamenti sempre più radicali del contesto è sorta la necessità di essere più in linea con i soggetti economici cui offrire le nostre prestazioni. Da qui la spinta verso una specializzazione a valle, non più incentrata sulla specifica preparazione ma in grado di dialogare attivamente con i soggetti economici con cui lavoriamo. Di fatto abbiamo suddiviso il Pil in cinque grandi macroaree: mare, made in Italy, edilizia, ambiente e service economy. Da li partiamo per interpretare al meglio le esigenze dei territori.

La ricerca, quindi, è un primo tentativo di conoscere meglio il settore…
Le attività legate al mare sono oggettivamente un pilastro della nostra economia. Al centro del Mediterraneo possiamo giocare un ruolo di rilievo nella distribuzione dei flussi di traffico che intercettano tre continenti. Proprio per questo, per sfruttare questa potenzialità, nasce l’esigenza della specializzazione settoriale, l’essere in grado di maneggiare la complessità dei molteplici aspetti legati al questo mondo. Si pensi solo al tema dell’import-export, con tutte le ricadute in termini di normative doganali, o, per quanto concerne il segmento dello shipping, all’importanza acquisita in questi anni dalle procedure previste dagli strumenti per la crisi d’impresa nel delicato iter di ristrutturazione dei debiti.  

Come intendete raggiungere l’obiettivo?
Il dialogo con la Federazione del Mare e con tutti i soggetti isitituzionali della filiera è già stato avviato. Una volta mappate le specializzazioni del territorio puntiamo a promuovere una o più rete di professionisti, tenendo debitamente conto dei percorsi di specializzazione delle attività innescate dalla riforma portuale. Nel prossimo anno e mezzo sarà completato un tour di interlocuzione con tutti gli ordini in cui è presente un’autorità di sistema. Vogliamo stimolare la formazione di una comunità professionale improntata a conoscenza delle risorse in campo, alla competenza delle funzioni e alla promozione dell’economia territoriale.

Quale ruolo per la formazione? 
L’Università giocherà un ruolo centrale. Stipuleremo accordi con gli atenei della penisola per la messa a punto di eventi formativi, principlamente nella modalità e-learning, per fornire aggiornamenti e indicazioni strategici.
Negli anni scorsi avete prodotto anche uno studio sulle ZES, siamo in ritardo…
Sulla scorta di quanto sperimentato dalla pubblicazione delle nostre indicazioni non posso auspicare che per l’avvio di questi formidabili strumenti di sviluppo si metta mano a scelte coese di politica industriale. Bene le agevolazioni fiscali e l’abbatimento dei tempi burocratici ma va tenuto conto anche delle vocazioni territoriali. I pacchetti per l’insediamento devono essere pensati per attori economici in grado di valorizzare l’economia entro cui dovranno operare.

                                                                                                                                                 G.G.
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