Header Ads

APRILE PAG. 48 - V Rapporto PMI fotografa un Sud in bilico sulla ripresa


Su un totale di 1,7 milioni di imprese meridionali le PMI di capitali sono circa 320mila. Nella maggior parte caratterizzato da compagini di piccolissime dimensioni (da 1 a 9 addetti) l’aggregato registra una parte significativa, e crescente, di società con un fatturato compreso tra 2 e 50 milioni di euro e con 10-250 addetti. Campione rappresentativo (più di 30mila unità) del tessuto imprenditoriale del Mezzogiorno alla cui analisi è dedicato il V Rapporto PMI curato da Confindustria e Cerved, con la collaborazione di SRM – Studi e Ricerche per il Mezzogiorno.

Raggiunti a cavallo del 2017 i livelli pre-crisi le imprese di capitali al Sud prese in considerazione dal rapporto vantano un fatturato di tutto rispetto: oltre 136 miliardi di euro, con un valore aggiunto di quasi 32 miliardi e debiti finanziari per oltre 34 miliardi (poco più del 10% del Pil meridionale). “Sebbene configurino una dimensione economica di assoluto rilievo, tali imprese costituiscono solo un segmento minoritario del tessuto produttivo nazionale. Rispetto al totale delle PMI italiane, quelle del Mezzogiorno sono il 18,5% del totale ma producono solo il 15% del fatturato e del valore aggiunto, contraendo una percentuale grosso modo simile dei debiti finanziari totali”. Una discrasia competitiva che il report addebita a una serie di fattori come la composizione settoriale (al Sud si registra una presenza e una crescita maggiore di aziende attive nel settore servizi, delle costruzioni e dell’agricoltura, ed una più contenuta del settore dell’industria), la scarsa specializzazione produttiva e le caratteristiche dei beni e dei servizi prodotti.

A fronte di un sostenuto aumento dell’occupazione nel comparto (con il +20,8% della Campania) e di un sostanziale allineamento alla media nazionale del fatturato (+4,4%) e del valore aggiunto (+3,5%) stenta il capitolo dei ricavi (+0,5%, lontano dal +3,6% nazionale), frutto della crescita del costo del lavoro, il cui livello è tornato a lievitare a partire dal 2017 (CLUP al 69,8%). 

Pur registrando il perdurare del trend legato alla sostenibilità finanziaria cominciato nel 2012, è proprio il leggero peggioramento del merito di credito (dal 25,6% al 26,7%) a segnalare i primi campanelli d’allarme legati al rallentamento dell’economia osservato nell’ultima parte del 2018. “Per la prima volta dal 2012 tornano infatti ad aumentare i giorni di ritardo (a 20 giorni, con un divario che torna ad ampliarsi rispetto alla media nazionale), così come ha ripreso a crescere la quota di PMI in grave ritardo, (aziende che sforano di oltre 60 giorni le scadenze pattuite), situazioni di difficoltà che possono precludere a mancati pagamenti o casi di default”. Ulteriore segnale di allarme le chiusure di impresa. “Nel 2018 tornano a crescere i fallimenti (+5,3%), per la prima volta dal 2014, mentre il dato nazionale continua a segnare un sia pur minimo calo”.

Stante il faticoso “ripopolamento” del segmento delle PMI di capitali dell’industria, che corrispondono a poco più di un sesto del totale presente nell’area, il Mezzogiorno presenta una rilevante differenziazione regionale. Da una parte “un gruppo di regioni che comprende Campania, Puglia, Basilicata, e per certi aspetti, la Calabria, mostra un più positivo andamento di medio periodo con riferimento ai principali indicatori di risultato (numero di imprese, ricavi, margini, redditività, affidabilità creditizia, indebitamento)”, dall’altro “un secondo gruppo, composto delle altre 4 regioni, che le vede costantemente agli ultimi posti del ranking rispetto alle stesse caratteristiche”.

“I risultati delle PMI meridionali sembrano insomma aver raggiunto un punto critico,” sintetizza la ricerca. “Fino al 2017, si osserva una ripresa caratterizzata dal ripopolamento del tessuto di PMI e dal recupero di fatturato e valore aggiunto. Nel corso del 2018 si avvertono segnali di rallentamento che potrebbero abbattersi su un sistema di PMI uscito dalla crisi con un maggior grado di solidità economico-finanziaria, ma con livelli di redditività ancora troppo bassi”.
Tre i fattori su cui si suggerisce di intervenire: la capitalizzazione e la crescita dimensionale, l’apertura del capitale, la propensione all’esportazione.

Riguardo al primo punto, a fronte di una crescita del capitale netto di poco inferiore a quella nazionale si registra una certa difficoltà di accesso al credito bancario, con un patrimonio netto delle PMI meridionali mediamente più ridotto di quello del resto del paese (poco più di 2,8 milioni di euro rispetto a 3,2 milioni, con un differenziale più accentuato per le realtà di media grandezza: 5,7 milioni contro poco meno di 8 milioni).

“Dunque, una azione convergente, pubblica e privata, capace di rendere conveniente l’investimento di capitali in azienda, e di colmare il gap con le imprese del Centro-Nord inizia ad imporsi come tema prioritario da porre all’ordine del giorno. Un salto dimensionale delle PMI del Mezzogiorno richiede forti iniezioni di capitale, nuove competenze e una diversa propensione al rischio che sono meno nelle corde degli imprenditori familiari, spesso orientati a mantenere il controllo nel lungo periodo anche a scapito di redditività e crescita”.

Nel bacino delle 30 mila PMI meridionali di capitali il rapporto ne individua circa un migliaio “che hanno caratteristiche compatibili con l’acquisizione da parte di un fondo di private equity (per crescita dei ricavi, profitti e generazione di cassa) o che hanno caratteristiche finanziarie, di governance e di leadership molto simili a quelle delle società già quotate”. Aprire il capitale di queste imprese ad apporti esterni potrebbe favorirne la potenzialità di sviluppo. “L’effetto sul PIL di tale apertura sarebbe assai significativo, potenzialmente quantificabile nel medio periodo fino a 3,4 punti percentuali al Sud (poco meno della media nazionale 3,7%), ed anche più elevato in regioni del Mezzogiorno dove la presenza imprenditoriale è più significativa (Campania) o comincia ad esserlo (Basilicata).

Il terzo ambito di crescita potenziale delle PMI meridionali è rappresentato dall’internazionalizzazione. Rispetto all’aggregato preso in considerazione “sono state individuate poco meno di 2.500 aziende con una forte vocazione internazionale, pari a circa l’8,7% del totale, con una presenza molto più ridotta del 20,7% della media nazionale”. “Per la gran parte delle PMI meridionali, si tratta di una grande opportunità ancora da cogliere. Le PMI fortemente esportatrici del Mezzogiorno, hanno fatto infatti registrare dati di bilancio (oneri finanziari, redditività, liquidità) migliori delle altre e, in particolare, una crescita del valore aggiunto tra 2009 e 2017 di 11 punti superiore rispetto alla media delle PMI del Mezzogiorno, con una frenata nel 2017 (“solo” +1,9%) che costituisce un (ulteriore) campanello di allarme sul possibile rallentamento in corso”.

Secondo il rapporto la principale sfida da cogliere rimane quella della crescita dimensionale, “ovvero la capacità delle imprese meridionali di passare da micro a piccola, da piccola a media e da media a grande”. Per raggiungere l’obiettivo bisognerà puntare sull’ammodernamento della cultura d’impresa, percorsi formativi, rinnovamento delle policy e della governance delle aziende. Un percorso di modernizzazione che potrebbe fare leva sulle risorse messe a disposizione dai fondi strutturali (le Regioni del Mezzogiorno hanno a disposizione 1,8 miliardi complessivi) e POR (1,1 miliardi), ancora troppo poco sfruttati (secondo gli ultimi dati, nelle Regioni del Sud, a settembre 2018 sono stati allocate risorse dei POR per un impegno di circa 387,4 milioni e sono stati erogati pagamenti per soli 18,6 milioni).

Non ultimi il rafforzamento di strumenti come il credito d’imposta (strumento che secondo il rapporto va reso strutturale e prorogato oltre la scadenza prevista al 31 dicembre 2020) e l’avvio definitivo delle ZES “che possono costituire una importante sperimentazione in cui coniugare in maniera integrata attrazione di investimenti delle imprese, economia del mare, infrastrutture - anche per le aree industriali - semplificazione procedurale e strumenti fiscali”.

 Occasione, quella offerta dalle Zone economiche speciali, che sottolinea ancora di più come “l’apertura delle imprese ai mercati, ovvero l’internazionalizzazione, si conferma una scelta strategica, sia per l’attrazione di investimenti dall’estero, sia per incrementare la propensione alle esportazioni delle imprese meridionali.

Cosimo Brudetti
Immagini dei temi di Bim. Powered by Blogger.