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DICEMBRE 2018 PAG. 44 - L’iniziativa Belt & Road quali prospettive per l’Europa


L’ambizioso piano di sviluppo lanciato dalla Cina nell’ultimo decennio è stato accolto con un misto di timido entusiasmo e aperta ostilità, ma che cosa significa per l’Europa?

“La Belt & Road Initiative (BRI) ha poco a che vedere con le infrastrutture”, così ha esordito Bruno Maçães, autore del libro Belt & Road: a Chinese World Order, davanti all’aula magna della Kühne Logistics University (KLU) ad Amburgo gremita per l’inaugurazione del nuovo centro di Ricerca sullo shipping e la logistica globale finanziato da Hapag-Lloyd. “La BRI ha come obbiettivo quello di ridefinire le catene del valore a favore della Cina”. Non si tratterebbe quindi a parere dell’ex ministro portoghese per l’Europa, oggi residente a Pechino, solo di un progetto di miglioramento della connettività cinese con i paesi confinanti e con l’Europa, né tantomeno solo un programma di aiuti internazionali ai paesi in via di sviluppo, ma di un progetto ben più ambizioso.

Molto si è detto su questo piano di sviluppo che è stato paragonato al piano Marshall e che comprende oltre 1500 progetti infrastrutturali tra porti, ferrovie, interporti e infrastrutture energetiche, dal porto del Pireo in Grecia, all’interporto di Khorgos, al confine tra Cina e Kazakistan, passando per la rotta artica e forse anche per i porti dell’Adriatico. Il progetto, che è stato finanziato finora con 210 miliardi di dollari, prevalentemente in Asia, dovrebbe concludersi nel 2049, un secolo dopo la dichiarazione del primo ottobre a Pechino di Mao Zedong che fondò la Repubblica Popolare Cinese, e a seconda delle stime gli investimenti complessivi ammonterebbero a 3.000 miliardi di dollari.
Questo ambizioso piano di sviluppo, che può essere visto come il proseguimento di alcune iniziative dei precedenti Presidenti della Repubblica Popolare Cinese, è divenuto uno dei progetti più prestigiosi dall’attuale Presidente Xi Jinping. Varato nella primavera del 2013 è stato ampliato nell’autunno dello stesso anno ad includere la nuova via della seta marittima e più recentemente anche una rotta polare, ed è divenuto quasi sinonimo della nuova politica globale cinese volta a consolidare il ruolo della Cina come nuova potenza mondiale.

Il progetto è complementare alla strategia Made in China 2025, che ha come obiettivo lo sviluppo del settore manifatturiero cinese verso attività ad alto valore aggiunto tra cui l’industria farmaceutica, l’informatica avanzata, i nuovi materiali, le componenti per il trasporto navale, aereo, aerospaziale e ferroviario e le automobili elettriche. Chiaramente, al fine di permetter ai settori manifatturieri cinesi di evolvere, è necessario che i prodotti a più basso valore aggiunto, come il tessile, la metallurgia e le costruzioni, che costituiscono oggi la base dell’industria cinese, trovino altri sbocchi.

Non sorprende quindi che fino ad ora l’impatto principale dell’iniziativa Belt & Road si sia percepito in Asia, in particolare nei paesi confinanti con la Cina, come il Vietnam, il Myanmar, il Pakistan, e il Kazakistan. A prima vista il modello adottato finora sembra non essere caratterizzato da una visione coerente, ma più da una politica di investimento opportunista. Invece che al completamento di un puzzle predefinito, il piano di investimenti cinese fa pensare più a un’immagine a mosaico, il cui design finale, costituito dalle varie ‘tessere’ infrastrutturali, ha un senso solo in una visione di lungo periodo. A una più attenta riflessione, tuttavia, ci si rende conto che per capire la BRI sia necessario astrarre da un’analisi costi-benefici di un singolo progetto, in un’ottica di politica industriale globale, con importanti riscontri geopolitici ed economici, motivati sia da pressioni interne al sistema che dalla necessità di consolidare la posizione internazionale della Cina.

Dal punto di vista interno, oltre alla già citata strategia di diversificazione Made in China 2025, è importante ricordare la necessità di garantire l’approvvigionamento energetico all’economia cinese in rapida crescita. Oltre due terzi degli investimenti in programma sono a carattere energetico. Inoltre il governo cinese deve garantire lo sviluppo delle province interne, un processo già avviato dai predecessori del Presidente Xi. Infine la necessità di offrire nuovi spazi alle aziende cinesi, in particolare nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria civile e dei trasporti. Basti notare a questo proposito, che le aziende ad aver beneficiato di più finora dallo sviluppo infrastrutturale estero sono proprio le aziende cinesi che si sono aggiudicate lavori per oltre 320 miliardi di dollari.

Ma alla base della BRI ci sono anche ragioni di politica estera. Da un lato emerge chiara la necessità di garantire l’accesso della Cina ad aree ad alta importanza strategica. Viene spesso citato il corridoio pachistano, che offre un canale di accesso diretto sull’oceano indiano alle provincie occidentali cinesi, oltre agli investimenti nel sud-est asiatico, che permetterebbero di ridurre la dipendenza della Cina dall’accesso al Mare Cinese Meridionale, un’area il cui controllo è critico per la Cina e gli Stati Uniti. Dall’altro è inevitabile notare il crescente coinvolgimento delle forze militari cinesi sia nelle missioni internazionali, che in termini di esercitazioni militari, spesso coinvolgendo proprio le regioni oggetto della BRI.

Recentemente ha destato scalpore la visita nel porto del Pireo delle forze navali cinesi. D’altronde, dove si muovono le merci, si possono muovere anche le truppe, e lo sviluppo di una base militare cinese in Djibouti, fa pensare che dietro la BRI ci siano anche ragioni di carattere militare.
Poi c’è la capacità della Cina di utilizzare la Belt & Road per influenzare la politica internazionale. Un aspetto che è stato più volte sottolineato è quello che, soprattutto per le economie meno sviluppate, esiste il rischio che tramite il finanziamento delle infrastrutture, la Cina miri ad acquisire un certo ascendente sui governi dei paesi coinvolti. In alcuni casi il debito estero di paesi come il Kyrgyzstan, Montenegro o le Maldive, è quasi interamente controllato dalla Cina. Dal momento che gran parte degli investimenti vengono finanziati tramite l’acquisizione di debito del paese coinvolto, qualora il paese non sia in grado di ripagare il debito contratto, l’ente finanziatore è in grado di prendere possesso dell’infrastruttura in questione. Questo avviene di solito tramite aziende controllate, come la China Merchant Group, di fatto un braccio operativo del governo di Pechino, come sottolineato da James J. Wang, del Research Centre sulla BRI della City University di Hong Kong. Casi rappresentativi sono l’acquisizione l’anno passato di una concessione di 99 anni per il porto di Hambantota in Sri Lanka a fronte di un investimento di 1.1 miliardi di dollari circa, o la cessione nel 2011 da parte del Tagikistan di oltre 1158 kilometri quadrati di aree di confine contese col governo cinese in cambio della cancellazione del debito pubblico controllato dalla Cina, il cui ammontare è rimasto riservato.

Inoltre, come sottolineato da Thomas Eder, del Mercator Institute for China Studies di Berlino, durante il suo intervento al seminario internazionale sulla Belt & Road tenutosi il 23 Novembre sempre presso la KLU di Amburgo, tramite questo programma di investimento e di credito, la Cina è in grado di aumentare la propria influenza nelle istituzioni internazionali, in cui ogni Stato Membro ha un voto. Sembrerebbe per esempio che nell’ambito delle Nazioni Unite, l’influenza cinese si sia già fatta sentire prevenendo l’approvazione di alcune risoluzioni volte a sottolineare la carenza di alcuni diritti umani in Cina.

Lo sviluppo della Belt & Road cinese ha inevitabilmente anche delle conseguenze sull’Europa, uno dei punti di arrivo della nuova via della seta e dei corridoi ferroviari che attraversano l’Asia occidentale. A questo proposito è bene sottolineare che sebbene ad agosto si sia raggiunto il traguardo di 10.000 treni tra Amburgo e Pechino, una grossa porzione dei container trasportati viaggiano vuoti, e, sebbene i tempi di transito siano inferiori a quelli della navigazione marittima, i costi resterebbero proibitivi se non fosse per i sussidi cinesi.

Un’analisi puntuale dell’impatto della Belt & Road sul sistema dei trasporti del Mediterraneo è stata fatta a più riprese dal SRM di Napoli, che sottolinea come gli investimenti nei porti mediterranei siano il risultato di una strategia di accesso all’Europa incentrata su alcuni punti strategici chiave, con investimenti già effettuati o in discussione nell’arco adriatico, a Suez, nel Pireo, e a Valencia. Sebbene l’Europa abbia in passato giocato un ruolo marginale nella prospettiva cinese, a fronte di una frammentazione politica e in parte una posizione secondaria nello scacchiere mondiale rispetto agli Stati Uniti, la strategia Belt & Road potrebbe influenzare l’assetto infrastrutturale del vecchio continente, che con i suoi programmi di sviluppo di una rete di trasporto integrato, come le TEN-T o le autostrade del mare, ha mantenuto obbiettivi meno ambiziosi della Belt & Road.

Nonostante il gabinetto della Commissaria Europea ai Trasporti, Violeta Bulc abbia creato un tavolo ad hoc (la EU-China Connectivity Platform) con l’obbiettivo di coordinare le risposte Europee alla BRI, sembrerebbe che a questo proposito non sia però l’Europa a guidare lo sviluppo di questa strategia. In particolare, la Cina sembrerebbe favorire una maggiore centralità dei porti del Mediterraneo e una complementarità tra ferrovia e trasporto marittimo. Forse opportunisticamente, questa visione si sta attuando tramite un approccio cha varia da paese a paese, in alcuni casi sviluppando partnership, in altri, tramite acquisizioni di infrastrutture strategiche, e in altri offrendo nuove fonti di investimento molto utili per quei paesi con elevati deficit di bilancio. Tramite questo approccio la BRI ha trovato degli alleati tra alcuni governi Europei, senza però una corrispondente posizione e visione comune europea comparabile all’iniziativa Belt & Road.

Come sottolineato da Maçães, “la BRI è una politica di sviluppo industriale del tipo che non si vede in Europa dagli anni sessanta”. Forse è arrivato il momento per l’Unione Europea di sviluppare una visione coerente sul ruolo da svolgere nello sviluppo economico dell’Eurasia, non solo in termini di politica internazionale, ma anche in termini di sviluppo logistico e accessibilità. In che termini tale strategia possa essere sviluppata nel contesto di un’Europa guidata da interessi in alcuni casi divergenti e spesso incapace di una visione transnazionale dei vantaggi del progetto europeo, resta una domanda ancora aperta.

Michele Acciaro
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