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SETTEMBRE 2018 PAG. 64 - PORTI, RETROPORTI E ZONE ECONOMICHE SPECIALI - A cura di A.Berlinguer - Giappichelli Editore

 

Nel mondo esistono quasi 4mila ZES, di varia natura, con oltre 70 milioni di occupati. I modelli maggiormente affermati si concentrano sui processi manifatturieri e sulle nuove tecnologie mettendo a convergenza grandi infrastrutture, competenze e servizi con la semplificazione delle procedure burocratiche, riduzione degli oneri doganali ed un fisco differenziato che premia competitività e vocazione all’esportazione. Strumento di accelerazione di sviluppo economico per aree altrimenti disagiate si collocano al crocevia tra varie politiche europee: doganale, fiscale, concorrenza e coesione economica-sociale. In questo interpretando la particolare definizione che ne danno alcuni di “zone ad economie liberali”. Luoghi, cioè, dove lo Stato incentiva e aiuta i processi produttivi, a patto che le regole, sebbene semplificate, siano rispettate con particolare attenzione ad aspetti come la tutela dell’ambiente, della salute, dei diritti dei lavoratori.     
 
In un contesto in cui l’Italia si affaccia con grande ritardo alle opportunità offerte dalle zone il libro curato da Berlinguer colma una lacuna a livello di letteratura sul tema usufruendo del contributo di vari autori, italiani e stranieri (professori universitari, preidenti di AdSP, esponenti istituzionali, operatori del settore), nella costruzione di una visione complessiva della questione. In particolare, affrontando da vari angoli di visuale, il ruolo che la portualità e le Zone Economiche Speciali svolgono oggi nel mercato globale, con particolare attenzione alla posizione dell’Italia e alle sfide che essa è chiamata a giocare nel Mediterraneo.

Da Shannon, in Irlanda, cui viene fatto risalire comunemente il primo esempio di zona moderna, all’esperienza cinese (a partire dal successo di Shenzhen), dalla Polonia a Tanger Med e agli insediamenti egiziani, l’esperienza delle ZES è analizzata in tutte le sue varianti.

 Quattro, sostanzialmente, le tipologie individuate: free port e commercial free zones (territorialmente delimitate, interne o limitrofe ai grandi porti rappresentano la forma più leggera di free zone. Un esempio di questo tipo è dato in Italia dal porto di Trieste); export processing zones (zone industriali che offrono incentivi e particolari condizioni operative); single factory (qui gli incentivi sono offerti a singole realtà industriali); charter cities (città o regioni all’interno di un paese che godono di particolari regole amministrative).

All’interno di queste coordinate l’Italia ha introdotto una sua disciplina delle ZES a partire dal d.l. “Resto al Sud” nel 2017 anche se l’iter per il loro insediamento non è stato ancora completato. “La legge è però solo una cornice,” avverte l’autore che avanza due interessanti proposte legate alle caratteristiche dei sistemi produttivi della Basilicata e della Sardegna. “Stato ed enti locali devono ora dimostrare di saper fare sistema e di non disperdersi nei mille rivoli della solita politica clientelare”.

Al contrario serve concentrazione di risorse e sburocratizzazione, oltre ad una minore pressione fiscale per poter attivare un meccanismo che ci può permettere finalmente di competere con l’efficienza dei porti del Northern Range e l’aggressività di quelli del Nord Africa, determinati a giocare un ruolo fondamentale nei traffici marittimi mondiali. “Solo così potremo fronteggiare i grandi players globali come la Cina che porta scientificamente in avanti una politica di egemonia economica mondiale con zone franche irresistibilmente competitive e con la sistematica acquisizione delle infrastrutture fondamentali dei Paesi strategici”. 
                                                                              Recensioni: giovanni.grande@portoeinterporto.it
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