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MAGGIO 2018 PAG 23 - Dall’Italia potrebbero partire le Zes di terza generazione



Formidabili strumenti di accelerazione economica le ZES sono istituti in continua evoluzione. Forme non cristallizzate di organizzazione territoriale in grado di rispondere in modo elastico alle più disparate esigenze strategiche di sviluppo. Nasce da qui la necessità di una “analisi comparativa a livello internazionale che permetta di intercettare e interpretare i trend sempre nuovi che esse riescono a catturare attraverso le loro molteplici configurazioni”. L’Avv. Maurizio D’Amico, Segretario Generale dell’Advisory Board della Federazione Mondiale delle Zone Franche e delle zone Economiche Speciali (Femoza), ci aiuta a fare chiarezza su alcuni di questi aspetti.

Come è caratterizzata a livello internazionale l’esperienza delle ZES? 
Ogni paese, a seconda del suo grado di sviluppo, punta su un carattere prevalente. Risalenti agli anni trenta del secolo scorso, le zone doganali di seconda generazione, cui fanno capo le moderne ZES, trovano il loro capostipite a Shannon in Irlanda, vero e proprio crocevia dei traffici transoceanici, alla fine degli anni cinquanta. Un esperimento di successo, su un’area di solo 2,5 chilometri quadrati, replicato su ampia scala in Cina, dove furono concepite come strumento di limitata apertura all’economia di mercato e, successivamente, di penetrazione geoeconomica a livello mondiale. In generale, il minimo comun denominatore empirico riguarda le diverse fasi temporali di sviluppo di una ZES: l’ideazione, la start up, la maturità. E’ solo in quest’ultimo stadio che si può misurarne la riuscita o meno.

Quali sono gli elementi che ne sanciscono il buon funzionamento?
La permanenza in loco degli insediamenti industriali, il flusso di investimenti esteri, il miglioramento della qualità professionale, effetti di filiera sulle imprese locali. È il caso, ad esempio, delle 14 zone della Polonia, al centro di visibili effetti economici virtuosi. Caratteristica essenziale rimane la presenza di regole interne più liberali, business oriented: il ricorso a facilitazioni amministrative, infrastrutturali e doganali rispetto a quelle meramente fiscali, limitate nel tempo e negli effetti e sempre più a rischio di contenziosi per violazione delle regole del commercio internazionale. 

Come si stanno evolvendo?
In Cina, dopo l’adesione al WTO, l’orientamento verso la leva fiscale è stato sostituto da agevolazioni amministrative, dall’arricchimento di un’offerta che punta alla semplificazione burocratica e a una sinergia sempre più spinta con il mondo della ricerca. Un approccio intelligente che potrebbe essere ripreso anche nel caso italiano.

Cosa propone per l’Italia?
Una volta avviate le nostre ZES potrebbero essere configurate come test driver per lo sviluppo di politiche commerciali sostenibili, sull’onda degli obiettivi indicati dall’agenda 2015-2031 delle Nazioni Unite. O come precursori di cluster di tecnologie innovative, attraverso una stretta collaborazione con università e centri di ricerche: un link che potrebbe avere effetti positivi nell’orientare il tessuto produttivo locale e nel formare personale specializzato. C’è poi un passaggio ulteriore.

Quale?
Potrebbero fungere da luogo di sperimentazione di politiche pilota da estendere eventualmente al resto del Paese. Un modello che è stato sperimentato nella maggior parte dei paesi BRICS con ottimi riscontri. L’obiettivo di lungo termine, considerato il contesto in cui si avvia l’esperimento, potrebbe essere la ricerca di nuovi paradigmi economici, in equilibrio tra interesse d’impresa ed interesse generale, puntando alla sostenibilità ambientale e sociale. Dall’Italia potrebbero partire le zone economiche speciali di terza generazione, perché no? 

 Giovanni Grande
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